FIRENZE – Questo è il primo di una serie di articoli dedicati alla Fiorentina che vinse lo scudetto nel 1956 e conquistò la finale di Coppa dei Campioni nel 1957, insediandosi ai vertici del calcio nazionale ed europeo (nella foto, 27 maggio 1956, Fiorentina-Lazio 4-1: il presidente Befani in tribuna con il marchese Ridolfi – Foto Torrini).
Il calcio degli anni Cinquanta
Era un calcio più raccontato che visto. Solo chi era presente allo stadio poteva assistere alla partita, tutti gli altri si affidavano alle cronache dei giornali. Le diverse testate avevano un inviato di punta, esperto nel raccontare lo svolgimento del gioco, le tattiche adottate dalle squadre e le prestazioni dei singoli. C’era poi l’uomo degli spogliatoi (il giornalismo sportivo era allora esclusivamente maschile), incaricato di raccogliere a caldo dichiarazioni e commenti. I servizi erano arricchiti dalla fotocronaca della partita, offrendo al lettore anche immagini che completavano un resoconto il più esauriente possibile. Carmelo Silva, grande disegnatore e vignettista, aveva inventato il calcio disegnato: ogni settimana Il Calcio e il Ciclismo Illustrato presentava l’andamento di una partita con vignette che riproducevano le azioni salienti del match. L’altro elemento fondamentale per costruire l’immaginario e il lessico del calcio italiano era la radio e la capacità dei radiocronisti, su tutti Niccolò Carosio, capace di rendere avvincente qualsiasi fase della partita, anche la più insignificante.
Qualche immagine delle gare veniva trasmessa dai cinegiornali proiettati nelle sale cinematografiche, prima della messa in onda dei film. Il calcio, a differenza di quello che vediamo oggi, veniva giocato con lentezza e senza l’intensità che conosciamo, ma aveva una propria, decisiva, fisicità. I duelli uomo contro uomo caratterizzavano e spesso determinavano la gara; erano confronti molto fisici e i difensori non andavano per il sottile. La tecnica, seppur espressa a una velocità molto ridotta, costituiva l’aspetto spettacolare del gioco, e il repertorio di ogni calciatore non poteva prescindere dal possesso di ottimi fondamentali. La preparazione dei calciatori, i loro allenamenti, il loro impiego tattico si basava su regole e principi generali trasmessi oralmente, che iniziavano ad assumere una dimensione “scientifica” nello studio e nell’organizzazione dei dati: anche a questo nuovo modo di studiare il calcio si deve l’inaugurazione del Centro Tecnico Federale di Coverciano avvenuta nel 1956.
I materiali usati all’epoca, a partire dall’abbigliamento, evidenziano ancor di più l’enorme differenza tra quel calcio e il calcio di oggi. Le pesanti maglie di lana, le scarpe e i palloni di cuoio marrone con le cuciture che assorbivano l’acqua e (minuto dopo minuto) diventavano sempre meno controllabili sono immagini che appaiano lontanissime. I punti assegnati alla vittoria erano due e non tre. In caso di retropassaggio al portiere, questi poteva raccogliere il pallone con le mani. Le perdite di tempo non venivano recuperate e molti allenatori sviluppavano ogni tipo di tattica ostruzionistica. I numeri di maglia andavano dall’uno all’undici e le formazioni venivano imparate a memoria. I giocatori che si infortunavano nel corso della gara non potevano essere sostituiti, ed erano soliti collocarsi, pur menomati, nella posizione di ala sinistra per rimanere in campo e cercare di aiutare la squadra – a volte ci riuscivano segnando il cosiddetto gol dello “zoppo”.
Gli arbitri, per le ammonizioni e le espulsioni, non avevano a disposizione il cartellino giallo e rosso (introdotti in occasione della Coppa del Mondo 1970) e tutto avveniva oralmente. I calciatori non affidavano la gestione dei loro interessi a procuratori o a fondi d’investimento. Erano, in assoluta prevalenza, ragazzi umili, contenti di avere la possibilità di lavorare giocando al calcio, senza essere costretti alla durezza della vita in fabbrica, nelle campagne o in miniera. Pur godendo di privilegi e buoni compensi, erano alla mercé delle società proprietarie del loro cartellino. Il divismo era molto raro; i club esercitavano uno stretto controllo sulla vita privata dei giocatori, favorendo, per gli scapoli, il matrimonio. La maggior parte dei calciatori militava a lungo nelle squadre ed erano portati a sviluppare una vita di squadra. La cena domenicale del dopo partita era consumata in comune da tutti i calciatori con le rispettive mogli; i passatempi vissuti insieme, dal biliardo al ping pong, cementavano l’amicizia e lo spirito di gruppo. La Fiorentina 1955-1956 fu campione anche in questo. Lo testimonia il fatto che molti giocatori continuarono a vivere a Firenze e tutti gli altri erano sempre pronti a tornare, ad abbracciare la città, i tifosi, i loro compagni.
Il presidente Befani
Enrico Befani, nato a Prato il 15 novembre 1910, era diventato presidente della Fiorentina sabato 29 dicembre 1951, alla riunione d’insediamento del nuovo Consiglio direttivo. Industriale laniero, aveva sviluppato enormemente l’azienda tessile di famiglia stringendo relazioni commerciali in tutto il mondo: dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia al Perù, dove aveva una fabbrica a Lima. La fabbrica Befani di via Valentini era una delle più grandi di tutta l’area pratese: un edificio di cinque piani e di circa 120 metri di altezza. Uno stabilimento avanzato, in cui veniva estratta la materia prima (lavorazione e selezione degli stracci) per la produzione di abiti, stoffe, tessuti. Befani e i nuovi consiglieri non conoscevano il mondo del calcio, ma il loro ingresso nella Fiorentina aveva un intento estremamente ambizioso: far entrare la società viola nell’aristocrazia del calcio italiano.
Il presidente trasformò la Fiorentina in una società d’avanguardia, definendo responsabilità e ruoli e segnando la fine del dilettantismo artigianale con cui era stato gestito fino ad allora il club. La Fiorentina divenne un’azienda di primo livello, basata sulla programmazione degli obiettivi da raggiungere e delle strategie per realizzarli. Il 1 luglio 1952 venne inserito un altro tassello decisivo: il ragionier Luciano Giachetti diventò direttore amministrativo e sportivo della Fiorentina. Giachetti, nell’immediato dopoguerra, era stato protagonista della nascita della Sestese, arrivata in pochi anni in serie C. Luciano non aveva esperienza nella direzione di grandi squadre, ma aveva fatto una lunga gavetta a Sesto Fiorentino. Era un grandissimo conoscitore dei regolamenti e delle norme federa li, una conoscenza che gli aveva fatto conquistare il soprannome di “re dei ricorsi”. Le cronache dell’epoca raccontavano che avesse vinto ben diciotto reclami presso gli organi federali. Proprio la sua preparazione e la competenza sui meccanismi normativi che regolavano il mondo del calcio furono alla base della scelta compiuta da Befani e dai suoi collaboratori.
Dopo il quarto posto nella prima stagione, in cui Befani era subentrato al precedente presidente Carlo Antonini, a metà del campionato 1952-1953, per una grave crisi tecnica, la Fiorentina dovette cambiare l’allenatore. Non era semplice sostituire Renzo Magli, amatissimo dal pubblico per il suo passato da calciatore-bandiera della squadra viola. Al suo posto venne chiamato Fulvio Bernardini, che allenava il Vicenza in serie B. Bernardini era un teorico del football. Giornalista, prima ancora che allenatore, fu uno dei più fini conoscitori del calcio, tanto da essere soprannominato “Dottor Pedata”. Condensò in un decalogo (che fece scuola) le regole per la corretta applicazione del gioco moderno, il sistema – chiamato WM, lettere che descrivevano la disposizione degli uomini in campo.
All’epoca un allenatore poteva rescindere un contratto e sistemarsi su un’altra panchina anche a stagione in corso, pagando una penale. Bernardini raccontava che per fare il salto di categoria, dalla A alla B, aveva rimesso duecentomila lire di tasca propria. Infatti, per rescindere il contratto che lo legava al Vicenza, aveva dovuto pagare al presidente Italo Festa la penale di un milione di lire, mentre la Fiorentina gli pagò ottocentomila lire per metà stagione. La scelta di puntare su Bernardini aggiunse l’innovazione tecnica a quella organizzativa. Con questa duplice rivoluzione, nella conduzione della società e della squadra, la Fiorentina riuscì a battere gli squadroni del nord che rappresentavano una concorrenza formidabile. L’Italia era alle soglie del boom economico e le grandi squadre appartenevano direttamente ai maggiori industriali: Gianni Agnelli (Juventus), Andrea Rizzoli (Milan) e Angelo Moratti (Inter).
La dote maggiore di Befani era la grande capacità organizzativa. “Lavoravano, si divertivano senza perdere tempo a contare i soldi”, fu questa la grande verità, sportiva e umana, raccontata da Fulvio Bernardini, quando raccontò di Befani e dei suoi collaboratori. Una realtà scandita dagli impegni della squadra, con la presenza costante dei consiglieri agli allenamenti e alle trasferte, e caratterizzata dal ruolo fondamentale del segretario Gallo, sempre vicino a tecnici e giocatori per risolvere qualsiasi situazione si venisse a creare, nonché dai continui confronti tra Bernardini e Giachetti, dai viaggi rapidissimi per giudicare possibili nuovi acquisti e dall’assoluta responsabilità finanziaria assunta dai consiglieri. “Vede” disse Befani a Bernardini il giorno che lo conobbe “sono giovane come dirigente e debbo dirle che di lei non molti mi hanno parlato bene. Però ho fiducia in quei pochi. Venga con me a Firenze e non si pentirà”. Tra quei pochi c’era il “creatore” della Fiorentina, Luigi Ridolfi che l’aveva voluta e imposta nel 1926 e gestita fino al 1942.
Bernardini accettò e cominciò a lavorare sodo. Trovò una squadra in difficoltà, ma anche una compagine già ben costruita in difesa, con il blocco messo a punto dal precedente allenatore Luigi Ferrero, composto dal portiere Costagliola, dai terzini Magnini e Cervato, da Chiappella, mediano difensivo, e dal centromediano Rosetta. Fulvio non accettava intromissioni nelle decisioni tecniche, e questo fu inizialmente un fattore di tensione: a Firenze erano in tanti a voler essere… ascoltati. Oltre alle sue capacità tecniche, la vera forza che consentì a Bernardini di superare l’impatto con l’ambiente fu il sostegno assoluto garantitogli dal presidente Befani.
La stagione 1953-1954 impose la Fiorentina all’attenzione nazionale. La squadra viola conquistò il titolo simbolico di campione d’inverno con 26 punti in 17 partite, assieme a Inter e Juventus. Alla 21° giornata i gigliati erano soli in testa alla classifica. L’undici di Bernardini inanellò diciotto partite consecutive senza sconfitte (dalla 6° alla 23°). Il calendario proponeva un doppio turno casalingo alla 24° e 25° giornata. Sembrava essere il trampolino di lancio verso lo scudetto, ma la Fiorentina si bloccò: il 14 marzo 1954 il Bologna annichilì il pubblico dello stadio Comunale, rimontando lo svantaggio iniziale e vincendo la partita per 3-1. Nella gara successiva, sempre a Firenze, i viola batterono il Novara, ma da quel momento in poi, per le restanti nove partite, ottennero soltanto sei pareggi senza mai più vincere e si piazzarono terzi, a pari punti con il Milan e a sette punti dall’Inter campione. Nelle ultime undici giornate i nerazzurri guadagnarono otto punti sui viola Nonostante il crollo finale, la Fiorentina ebbe il miglior rendimento difensivo di tutta la serie A con 27 reti subite in 34 partite.
La forza della difesa viola candidava la Fiorentina ad un ruolo da protagonista negli anni successivi. Mentre ci si interrogava sui motivi del crollo dell’ultima parte di stagione (scarsa qualità dell’attacco, rincalzi non all’altezza della situazione, fattore psicologico legato all’usura nervosa), veniva rinnovata l’ambizione a primeggiare nel calcio nazionale. Nel campionato 1954-1955 tutti si aspettavano il salto di qualità. La Fiorentina aveva sostituito il centravanti Bacci con il giovane Virgili, acquistato dall’Udinese, che segnò 15 reti; e aveva inserito un altro giovane attaccante, l’ala Bizzarri, autore di 10 gol. Invece, il duo prelevato dall’Inter (Zambaiti e Buzzin) deluse, mentre la squadra non poté mai contare sull’apporto dell’uruguayano Vidal a causa di un grave infortunio. La Fiorentina ebbe un buon rendimento iniziale, ma crollò nella fase centrale del campionato tra la 19° e la 27° giornata quando, in nove partite, perse ben sei volte. Un dato clamoroso se si considera che in tutto il campionato (34 gare) le sconfitte viola furono nove. Lasciarono soprattutto di stucco una serie di débâcle: 4-0 a Milano contro il Milan, 4-1 in casa della Juventus, 5-1 a Bergamo. Sembrava fosse venuta meno anche l’unica sicurezza conquistata: quella della solidità del blocco difensivo. Ci furono grosse polemiche sulla gestione tecnica della squadra. Bernardini era stato attaccato su tutti i fronti, e arrivò a querelare uno dei più importanti giornalisti sportivi dell’epoca, Bruno Slawitz, che sul Guerin Sportivo lo aveva apertamente beffeggiato: “La Fiorentina è una grande squadra che, se ben diretta, avrebbe potuto vincere tranquillamente il campionato”.
Critiche sulla conduzione tecnica furono fatte anche da Gunnar Gren, il centrocampista che aveva fatto grande il Milan del trio svedese Gre-No-Li (Gren, Nordhal, Liedholm). Proprio Bernardini aveva fortemente voluto Gren nella stagione 1953-1954. Sul finire del campionato successivo, quando capì che non sarebbe stato confermato, “il professore” (così era soprannominato lo svedese) attaccò pesantemente l’allenatore. Gren contestava l’utilizzo delle palle lunghe, giustificato visto che la squadra disponeva di due ali veloci (Mariani e Bizzarri) e di un potente centravanti come Virgili. Bernardini mantenne la calma e condusse la nave in porto conquistando il quinto posto, senza subire sconfitte nelle ultime sette partite. Aveva le idee chiare sul futuro: nonostante i 48 gol subiti, la forza della difesa non era in discussione, ma per essere competitivi ci volevano attaccanti di qualità superiore.
Massimo Cervelli, commissione storia Museo Fiorentina