FIRENZE – Lo spunto per il mese appena iniziato ce lo offre il compleanno di Anselmo Robbiati, nato a Lecco il 1 gennaio 1970, centrocampista anzi… trequartista (un tempo si diceva “rifinitore”) di una Fiorentina stellare: Toldo, Padalino, Rui Costa, Chiesa, Batistuta, Edmundo… solo per citare i più bravi. Anselmo compie oggi 54 anni, portati benissimo, sostenuti da un mancino magico e un talento infinito. In panchina (in ordine cronologico, dal 1993 al 2002): Claudio Ranieri, Alberto Malesani, Giovanni Trapattoni, Roberto Mancini, Ottavio Bianchi, Luciano Chiarugi… tutti impegnati a salvare una Fiorentina derelitta e fallimentare. Ma chi svettava al di sopra della mediocrità generale era lui: Sant’Anselmo da Lecco (come recitava un famoso cronista dell’epoca), 173 cm, due gambine come stecchini da denti, alla faccia di chi diceva che con quel fisico lì… non ce l’avrebbe mai fatta.
LE “SETTE SORELLE”: dopo il pretesto (il compleanno di Robbiati, appunto…) arriva il contesto, ovvero il reale motivo per il quale celebriamo una certa tipologia di calciatore. Siamo a cavallo degli anni ’90, nelle rispettive squadre il fantasista vive ancora di luce propria: Baggio nella Juve, Mancini nella Samp (poi nella Lazio), Zola nel Parma… prima che si palesasse Totti nella Roma. Poi arrivò l’era del 4-4-2 (Sacchi e Ancelotti docent) per i quali i trequartisti erano un lusso ed un fastidio allo stesso tempo. Lo stesso Baggio (emarginato al Milan, in lite perenne con Lippi all’Inter, prima di rinascere a Bologna e Brescia), Signori (quasi un ingombro proprio per Sacchi a Usa ’94), addirittura Zola costretto a emigrare in Inghilterra… a “miracol mostrare”. Robbiati fu tra i pochi a salvarsi (e dire che anche Ranieri adottava il 4-4-2) in virtù di quell’anima da attaccante grazie alla quale bypassava certi paletti tattici. Avrete capito che quella era una Fiorentina diversa, costruita per comandare, all’epoca una delle cosiddette “sette sorelle”: Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio in primis, Fiorentina e Parma in secundis. La formazione? C’è da stropicciarsi gli occhi: Toldo, Carnasciali, Padalino, Amoruso, Serena; Cois, Rui Costa, Bigica, Schwartz; Baiano, Batistuta. Negli anni a venire si faranno apprezzare figure come Massimo Orlando, Mijatovic, Oliveira, Enrico Chiesa, Edmundo. E in mezzo a loro, Anselmo Robbiati. Che non partiva (quasi) mai titolare, ma che alla fine era sempre in cima: alle presenze ed ai gol segnati. Oltre agli assist vincenti, vera e propria specialità della casa. Lo abbiamo già citato: Claudio Ranieri, che una volta durante un Fiorentina-Bologna ne cambiò tre a fine primo tempo (quando c’erano solo tre cambi a disposizione) per poi vincere la partita 3-2, proprio (e non a caso) grazie a una punizione dal limite di Robbiati. Oppure Alberto Malesani che, sul 2-0 di un Fiorentina-Juventus, entrò in campo a festeggiare il terzo gol viola, frutto di un ricamo proprio di Robbiati infilatosi al “sette” alle spalle del portiere bianconero Peruzzi. Che dire infine di Trapattoni, fautore di un calcio legato alla prodezza individuale, tipo… Anselmo Robbiati che con una punizione chirurgica (contro l’Atalanta) spedisce la Fiorentina in finale di coppa Italia per poi perderla (guarda un po’) contro il Parma di Malesani. Questo per dire cosa? Che il calcio era (ed è) sempre più fisico, aggressivo, muscolare, ma che senza la tecnica non si va da nessuna parte, e Anselmo Robbiati ne è la dimostrazione vivente. E con quella (almeno fino agli anni 2000) potevi vincere coppe e campionati.
LARGO AI PICCOLETTI: di Robbiati abbiamo raccontato, ma cosa dire di Francesco Flachi? Oppure di Domenico Morfeo? Il primo, prodotto del vivaio viola, esordisce in serie B nel 1993. Il ragazzo portava in dote decine di gol realizzati nelle serie minori, partite e prestazioni mirabolanti nella “primavera” di Luciano Chiarugi (memorabile la frase di Vittorio Cecchi Gori: “Flachi vale Del Piero”, quando il bianconero rivaleggiava con il “nostro” al torneo di Viareggio), e un coro che riecheggiava dalla Fiesole: “il ragazzo gioca bene, il ragazzo gioca bene”. E si sa… quando la curva intona un coro, per il calciatore è una specie di investitura. Flachi, però, era diverso da Robbiati: meno giocoliere, più realizzatore, meno rifinitore, più attaccante. Francesco Flachi, per dirla in parole spicce, era l’alter ego di “Ciccio” Baiano (spalla privilegiata di Batistuta). Il risultato, quindi, fu che Flachi ebbe il suo spazio, le sue occasioni (specialmente in Coppa Italia, dove nel ritorno della finale di Bergamo partì titolare e contribuì fattivamente alla conquista del trofeo), ma ciò non bastava, visto soprattutto il talento cristallino del ragazzo e le richieste da mezze squadre di serie A. Da lì allo svincolo il passo è breve: Flachi morse il freno, aspettò il suo turno (che in definitiva non arrivò mai) fino ad approdare alla Sampdoria, (nel 1999, dopo brevi parentesi a Bari ed Ancona), dove con 110 reti ufficiali è ancora oggi il terzo miglior marcatore di sempre dietro Roberto Mancini e Gianluca Vialli.
DOMENICO DA PESCINA, PER TUTTI… “MORFE”: discorso diverso per Domenico Morfeo. Nato a Pescina (comune dell’Abruzzo, provincia dell’Aquila) il 16 gennaio 1976, Domenico Morfeo arriva nelle giovanili dell’Atalanta grazie a quel formidabile coltivatore di pianticelle che rispondeva al nome di Mino Favini. Carattere duro, poco incline ai compromessi (come tutti gli abruzzesi), “Morfe” non impiegò molto tempo ad affermarsi: dapprima nella “primavera” nerazzurra (sotto la guida di un giovanissimo Cesare Prandelli), poi in prima squadra in coppia con “Pippo” Inzaghi che nel 1997, grazie ai suoi assist, vinse la classifica cannonieri della serie A. In quei giorni fu memorabile una frase di Alessio Tacchinardi (suo compagno nelle giovanili atalantine) che nel 1996, a margine della conquista dell’Europeo under 21, se ne uscì così: “tutti dite che Del Piero sarà il futuro del calcio italiano, ma il vero fuoriclasse si chiama Domenico Morfeo”. Quanto aveva ragione. In ogni caso, nell’estate del 1997, il mancino abruzzese ebbe la sua grande occasione, fu acquistato dalla Fiorentina per la cifra (non indifferente) di 8,5 miliardi di lire. Lì trovò Alberto Malesani, che per lui stravolse il modulo della squadra, oltre a modificare il ruolo del grande Manuel Rui Costa. Eh già perchè il portoghese, da trequartista che era, si riciclo’ in una sorta di centromediano metodista, un 3-4-1-2 dove Morfeo era l’uomo dietro alle punte… Gabriel Batistuta e Lulù Oliveira. Quella di Malesani era un Fiorentina bellissima, spettacolare, capace di vincere sette partite in trasferta quando (solo un anno dopo) quella di Trapattoni ne perse addirittura 10, tra le quali il 2-4 di Piacenza e l’1-4 di Venezia. Tutto questo fino all’arrivo di Edmundo (gennaio 1998) che tolse spazio a Morfeo e allo stesso Robbiati, ma questa è un’altra storia…
ROBBIATI E IL “SUNSET BOULEVARD”: a proposito di Robbiati, lui non era uomo da dichiarazioni roboanti, Anselmo era un calciatore silenzioso, introverso, che però non dimenticava. Abbozzava ma non dimenticava. E allora si chiese: perchè prendere Edmundo? Risposta di società ed opinione pubblica: Edmundo è brasiliano, Edmundo è un fenomeno, Edmundo con una giocata può farci vincere le partite. Va bene, passi. Ma soprattutto: perchè prendere Morfeo? Il piede è lo stesso (il mancino), il ruolo è lo stesso (rifinitore), le caratteristiche sono le stesse (estro, genio, fantasia). Ed allora, cui prodest? Perché intasare la batteria dei numeri dieci, lasciando scoperta (ad esempio) quella dei mediani? Per farla breve, Sant’Anselmo da Lecco non digerì mai l’acquisto di Morfeo (ripetiamo, per Edmundo c’era l’allure del campione verdeoro, ma per uno che veniva dall’Abruzzo cosa c’era?), Trapattoni (da parte sua) se la cavò con le solite frasi liscia-giornalisti, ma il 18 ottobre 1998 all’Olimpico quando Edmundo, al momento della sostituzione proprio con Robbiati, mandò a quel paese (in diretta nazionale) lo stesso Trap, si capì che l’equilibrio dello spogliatoio era solo un ipotesi e lo stesso Morfeo confermò che la convivenza tra due mancini (più un brasiliano atipico) era una “mission” pressoché “impossible”. Per la cronaca, quel 18 ottobre, si giocava Roma-Fiorentina, quinta giornata di campionato: viola primi in classifica a punteggio pieno, in vantaggio grazie a una rete di Batistuta al 32′. Poi il disastro: i cambi, i vaffa di cui sopra, le reti del carneade Alenichev all’89’ e Totti al 94’… Roma batte Fiorentina 2-1. Se non l’avessimo visto con i nostri occhi non ci crederemmo…
IL TROPPO STROPPIA: Batistuta, Baiano, Chiesa, Oliveira, Edmundo… Rui Costa, Massimo Orlando, Robbiati, Morfeo… chi più ne ha più ne metta. Paragonata a oggi, la rosa di quella Fiorentina sembra un “dream team”: fuoriclasse in ogni dove, talento a sfare, senza limiti all’abbondanza. Eppure come recita il detto? “Chi troppo vuole nulla stringe”. E quella Fiorentina volle tanto, troppo: soldi, consensi, riconoscimenti, ma di concreto… non strinse nulla. Questo per tornare da dove siamo partiti, da Anselmo Robbiati, uno dei piedi mancini più raffinati che la storia viola abbia mai annoverato. Eppure il suo carattere schivo, la sua anima gentile, introversa, giocarono spesso contro di lui. Noi lo celebriamo e gli formuliamo ancora gli auguri (come li facciamo alla Fiorentina e ai suoi tifosi per un sereno e vincente 2024), ricordando ai calciatori in erba che, da solo, il talento non basta: ci vogliono carattere, umiltà, spirito di sacrificio. E nella maggior parte dei casi… il gioco è fatto.
Stefano Borgi (Museo Fiorentina)