La campagna acquisti e la preparazione dello storico campionato 1955-1956, quello del tricolore

FIRENZE – Da tre anni la Fiorentina aveva lo stesso problema: migliorare l’attacco. L’anno precedente era stato acquistato, a caro prezzo (75 milioni), il giovane Giuseppe Virgili, centravanti dell’Udinese, ma il ragazzo, pur segnando, non poteva risolvere da solo tutti i problemi offensivi. “Virgili ha fatto un campionato discutibile. Deve imparare molto e assimilare con una certa difficoltà. Eppure, pur avendo giocato senza strafare ha segnato sedici gol. Io penso che, una volta acquistata esperienza, maggiore capacità e visione di gioco, il suo rendimento in gol dovrà aumentare. Ci vorrà qualche anno, ma bisogna che impari per forza, sia pure giocando a memoria. Ha vent’anni appena e il tempo non gli manca”. Questo, a fine campionato 1954-1955, il giudizio rilasciato da Bernardini su Virgili. Anche il giovane Bizzarri aveva avuto un rendimento positivo, segnando dieci reti. Era andato male Amos Mariani e un grave infortunio aveva fermato Ernesto José Vidal – entrambi erano destinati a lasciare la Fiorentina.

I due grandi acquisti dell’estate 1955 furono quelli di Miguel Montuori e di Julinho (nella foto). Montuori era figlio di un pescatore di Piano di Sorrento emigrato in Argentina. Si era trasferito in Cile per giocare all’Universidad Católica, con cui aveva vinto il campionato nazionale concluso nel gennaio 1955. A segnalarlo alla Fiorentina, ma anche alla Lazio, fu un sacerdote italiano, don Volpi, dei Padri Giuseppini del Murialdo, impegnato nella missione della propria congregazione in Cile. Don Volpi aveva conosciuto Luciano Giachetti, direttore sportivo viola, a cui segnalò Montuori e la Fiorentina fece seguire il calciatore. Dopo avere avuto relazioni e rapporti più che positivi, la società viola decise di ingaggiarlo. Fu un amico di Befani, Antonio Girardi, industriale in Cile, a fare da intermediario con il consiglio dell’Universidad Católica, e così l’affare venne velocemente definito. Montuori indossava la maglia numero 10, ma in realtà giocava da seconda punta al fianco di Virgili, e fu protagonista di un campionato strepitoso.

L’acquisto di Julinho fu molto più complicato. Il 4 luglio il vicepresidente Pacini e l’allenatore Bernardini partirono per San Paolo del Brasile. Nei giorni successivi l’affare sembrava concluso, con la precisazione che Julinho era di origine italiana e si chiamava Giulio Botelli. Intanto, il 9 luglio, la questione “stranieri” venne definita: le squadre potevano tesserare un giocatore straniero, un fuori quota al suo primo trasferimento e un oriundo impiegabile in Nazionale – per la Fiorentina, in quel momento, sarebbero stati: Gren (straniero), Julinho (fuori quota) e Montuori (oriundo). La mezzala svedese Gunnar Gren “il professore”, cervello della squadra, venne lasciato libero, dopo due anni con la maglia viola. L’affare Julinho non si chiudeva e cominciavano a spuntare nomi alternativi. Finalmente, i giornali del 21 luglio 1955 annunciarono la conclusione dell’acquisto: Julinho vestirà la maglia viola per un costo complessivo di otto milioni di cruzeiros (circa 60 milioni di lire), di cui sei e mezzo alla società e uno e mezzo al giocatore (al quale andranno anche 375.000 lire di stipendio mensile).

Fulvio Bernardini raccontò alla stampa che, normalmente, i brasiliani avevano il calcio nel sangue, possedevano una grossa base tecnica, ma mantenevano poca concentrazione: se pensassero al gioco collettivo vincerebbero facilmente i mondiali. Julinho era diverso. Era un elemento adattissimo per giocare in Italia, un attaccante completo, una delle migliori ali al mondo, titolare della Nazionale dal 1952. Inoltre, era un giocatore estremamente corretto: in sei anni non era mai stato ammonito. L’allenatore viola ne aveva apprezzato anche il carattere, la modestia e, non ultima, l’avvedutezza. Il giocatore aveva aperto due negozi a San Paolo (una macelleria e una merceria) diretti dai genitori e dalla sorella.

Julio Botelho, questo il suo nome, era uno dei più grandi giocatori brasiliani di quel periodo. Aveva un fisico da atleta in un momento in cui all’ala regnavano i giocatori brevilinei. Nella nazionale era stato protagonista dei Mondiali del 1954. Il Brasile venne eliminato nei quarti di finale (4-2) dalla grande Ungheria. Julinho era l’esempio di quanto si fosse evoluto il ruolo di ala. Una volta, l’ala era un giocatore parcheggiato sulla linea laterale, di solito un brevilineo, amante del dribbling da cui ricavava l’applauso e la possibilità di una fuga lungo la linea laterale, da onorare, alla fine, con un cross. Poi arrivarono le ali tornanti, giocatori di centrocampo e di difesa, con qualcosa – il numero di maglia – che ricordava l’attaccante. L’ala autentica, quella che sapeva attaccare, fare l’assist e anche segnare, si riconosceva per la prestanza fisica, unita alle qualità tecniche. Julinho era il miglior rappresentante possibile di questa mutazione dell’ala. La sua azione individuale cominciava da metà campo, bastava un passaggio banale sul piede per metterlo in movimento, poi succedeva qualcosa di straordinario: cominciava la fuga. All’inizio dell’azione Julinho giocava per sé, poi giocava per la platea, infine per la squadra. Il suo scopo non era il gol, ma il preludio al gol. La sua azione si chiudeva con un passaggio per il compagno, cioè con quello che nel passare degli anni fu chiamato assist, rubando il termine al basket. Julinho non crossava la palla alta, ma la spediva bassa e forte al centro dell’area dove ai suoi compagni di squadra bastava un tocco per segnare. Era il migliore altruista travestito da individualista. Quando era lui a mandare la palla in rete non esultava con la frenesia dei moderni goleador, ma tornava verso il centro del campo: voltava il cavallo come l’eroe di un film western. Si concedeva un sorriso, sotto gli eccellenti baffetti da attore, quando riceveva l’abbraccio dei compagni. Julinho era un calciatore più classico, più riflessivo, forte anche nei contrasti. Montuori era più istintivo, correva e si muoveva in modo più “vellutato”. Il suo gioco sembrava nascere e svilupparsi di momento in momento. Entrambi avevano in comune le esigenze tattiche della squadra e la possibilità di risolvere da soli situazioni anche disperate.

Il terzo cambiamento nella formazione titolare fu quello del portiere. La Fiorentina, dopo sette anni, decise di cambiare l’estremo difensore: l’amatissimo Nardino Costagliola che aveva tenuto a battesimo tutto il blocco difensivo viola. I giornali facevano i nomi dei possibili sostituti, ma nessuno pensava a Giuliano Sarti, il portierino che aveva giocato quattro delle ultime partite di campionato. Negli ultimi giorni del mercato arrivò Riccardo Toros, dal Milan, come parziale contropartita alla cessione ai rossoneri dell’ala Mariani. Sarti, al contrario di Nardino era un portiere modernissimo, in netto anticipo sui tempi: teneva una posizione insolita per il calcio degli anni Cinquanta, seguendo il gioco molti metri fuori dalla porta. Non indossava i guanti. Aveva un senso del piazzamento che gli consentiva molte volte di parare senza tuffarsi, come se calamitasse il tiro dell’avversario. Non concedeva nulla alla platea, se non la sua freddezza. Bloccava la palla senza portarla al petto, come invece faceva la maggioranza dei suoi colleghi. Il suo modo di essere portiere senza stare in porta rivoluzionò il ruolo. I compagni della difesa, sapendo che lui era piazzato molto avanti rispetto alla linea di porta risparmiavano le forze sui lanci in profondità degli avversari: Sarti vigilava. Portiere di ghiaccio. Senza guanti, senza cappellino e senza tanti tuffi.

La mossa tattica decisiva, la vera quadratura del cerchio avvenne a inizio campionato. Fu l’incidente subito da Bizzari a Busto Arsizio contro la Pro Patria, nella prima gara del 1955-1956, a cambiare la carriera. Bizzarri era una vera ala sinistra, un attaccante puro. I gigliati non avevano un giocatore simile in quel ruolo e il suo infortunio provocò una piccola crisi tecnico-tattica. Dopo qualche esperimento Bernardini puntò deciso su Prini, conoscendone la versatilità, l’attaccamento alla maglia e la generosità. L’allenatore romano aveva già provato a impostarlo come centromediano per avere un’alternativa pronta nel caso dovesse sostituire Rosetta. All’inizio sembrava un accorgimento già utilizzato nel calcio di quegli anni: l’ala “tornante” che rientrava a sostegno dei propri compagni a centrocampo e in difesa. Era stato Alfredo Foni, allenatore dell’Inter a usare Gino Armano in quel modo ed a vincere due scudetti consecutivi nel 1952-1953 e nel 1953-1954. Bernardini spiegò che lui, con Maurilio, aveva trovato molto più che di tornante: aveva messo in campo un terzino-mediano-attaccante. Prini era l’uomo ovunque, che non si limitava a presidiare la fascia sinistra, un giocatore prezioso in ogni parte del campo, capace di segnare.