SESTO FIORENTINO – La porcellana, si sa, è una cosa delicata, delicatissima. Se la si comprime troppo si rompe. Non è un prodotto come tanti altri che si può ridurre ad un semplcie calcolo industriale. La porcellana respira. si potrebbe dire che è cosa viva. Quantomeno lo sono le mani di coloro che la modellano, la colano, la cuociono, la dipingono, la trattano come fosse cosa viva. Se non si capisce questo. E non si ha il tatto e i sensi giusti la porcellana non si riuscirà mai a farla e a venderla. Queste sono le vere motivazioni per cui si teme la chiusura della Ginori.
Finora, almeno negli ultimi vent’anni, la porcellana della Ginori è stata trattata come i pignoni di un motore (con tutto il rispetto per la metallurgia e la metalmeccanica). Si è guardato troppo ai dividendi e troppo poco agli ammodernamenti della manifattura, si è privilegiata la finanza e meno l’aspetto artistico e, permetteteci, artigianli della produzione. L’investimento che doveva essere fatto decenni fa era nella continuità della scuola di pittura, nello sviluppo dell’allora Ida che avrebbe potuto e dovuto formare nuovi giovani capaci di tecniche ed esperienze tali da rinnovare, nella continuità della qualità, la produzione della manifattura sestese.
Invece questo non è stato fatto. Chi ha diretto la Ginori lo ha fatto con un obbiettivo finanziario che non si addiceva alla creatura dello scapestrato marchese Carlo Ginori che, nel 1735, l’aveva fondata.
La Ginori era un po’ come il panda del Wwf, una razza in via di estinzione che doveva essere protetta; privilegiare le rendite fondiarie e le prospettive edificatorie ne hanno invece ucciso lo spirito ispiratore.
In questi momenti i lavoratori sono in assemblea. Prima di tutto il loro destino è in bilico, poi quello della Ginori e di una città: a Sesto dovremo cominciare a pensare un po’ come se fossimo torinesi orfani della Fiat.