“Era il 9 marzo. Ero nella mia camera di Edimburgo verso le 23, quando il primo ministro Conte dichiara la chiusura delle scuole e università italiane fino al 4 aprile. Una misura drastica. Prenderla, ancora prima che l’OMS dichiarasse il virus una pandemia globale, sarebbe dovuto bastare a far aprire gli occhi di tutti sulla gravità delle circostanze in cui ci eravamo ritrovati, civili e politici, e non solo italiani, ma dell’Europa intera. È chiaro, sostenevo io, che si è di fronte a qualcosa di incontrollabile e come se non bastasse di sconosciuto, a cui non si aveva mai dovuto far fronte. Invece no. Mentre noi italiani a Edimburgo eravamo divorati dall’angoscia, britannici e altri di diverse nazionalità sembravano affrontare il tutto con serenità, che a noi sembrava tendere addirittura verso la leggerezza. Anche di fronte all’evidenza continuavo a trovare dei muri di incomprensione, da parte di amici, ma anche di colleghi di università e lavoro. “Ancora qua non c’è lo stesso numero di casi, non si può fare quello che ha fatto l’Italia. E poi la popolazione italiana è più vecchia” Davanti a una constatazione del genere, spiazzante, cercavo con tutte le mie forze di capire come si potesse essere così ciechi. Ma, più di ogni altra cosa, mi scervellavo su come l’essere umano potesse essere così poco lungimirante, come potesse ancora nel 21esimo secolo, fosse il 20esimo secolo l’unico straccio di storia a nostra disposizione per illuminare le nostre coscienze, dare prova di così poca consapevolezza. Eppure, parlavo con i nipoti della seconda guerra mondiale e i figli del Muro di Berlino. Forse la facevo troppo facile.
“Arriveranno” Era l’unica risposta accurata, quella che a lungo termine si sarebbe rivelata più plausibile. L’unica, perché la comunità scientifica internazionale era già stata più che chiara sulla rapidità di diffusione del virus. E poi, mi chiedevo, come fa il governo britannico a essere così sicuro del numero effettivo di contagiati? La risposta era immediata: semplicemente, non può, se non testa abbastanza. E, che risulti, la quantità di tamponi fatti nel Regno Unito fino a quel momento non era vicinamente comparabile a quella dell’Italia. Nonostante si fosse, sì, ancora ad uno stadio iniziale della diffusione, in ritardo rispetto all’Italia, non facevo pace con il fatto che si avrebbe potuto imparare. Si avrebbe potuto reagire con proattività invece di reattività, così da non rendere vane la già migliaia di morti e risparmiarne altrettante. Inoltre, e qua si apriva un dilemma di natura etica e morale, l’età avanzata di un essere umano era veramente un argomento sufficiente a giustificare la sua morte? Torniamo ancora una volta alla storia dell’orticello: ognuno che coltiva il proprio senza curarsi del vicino, che magari i pomodori non li vede dall’annata precedente. Siamo essere umani e in quanto tali portatori al contempo di bellezze e imperfezioni, d’altronde questa è una verità che ormai abbiamo tutti appurato. Ma se c’è un’imperfezione, una sola, il vizio più brutto con cui ancora ognuno di noi non ha fatto i conti, è il diritto di permetterci di decidere se la vita di un altro essere umano è degna oppure no di essere vissuta.
Nonostante il governo britannico non avesse ancora adottato nessuna misura di contenimento del virus, dal 10 marzo sono rimasto nella mia camera di Edimburgo, uscendo solamente per le necessità più strette, quali fare la spesa. Il console italiano aveva rilasciato una comunicazione video in cui suggeriva di seguire le direttive “di entrambi i governi”, probabilmente di fronte alla risposta negligente e poco tempestiva da parte del governo britannico. Io, come cittadino italiano, come cittadino britannico, ma soprattutto come cittadino di questo mondo, parte di una società che va ben oltre i governi e i confini che essi impongono, sono rimasto a casa. Fino a due settimane dopo, due settimane che sono sembrate un mese, quando ho deciso di imbarcarmi su uno dei voli di emergenza implementati dal governo italiano. Non è sicuro spostarsi quando l’aria che respiriamo è appestata da una pandemia. Né per noi, né per chiunque altro. Ma casa è casa, ed è dove si torna per sentirsi sicuri di fronte a un presente che arranca verso il futuro.
Se avete la possibilità di tornare, non fatelo in maniera spavalda: non si scherza con la natura. Fate di una mascherina il vostro elmo, indossate guanti (e occhiali, se ne portate), e proteggete, voi e chi vi sta attorno. Se non potete, e ce ne sono ancora tanti di voi in ogni angolo della Terra, e, se mai questo articolo capiterà anche per puro caso sui vostri cellulari, è importante che sappiate che siete coraggiosi e a voi va tutto l’affetto.
Io resto a casa”.