Stare a casa. Rosanna Martino, logopedista, il lavoro a casa e la scoperta della lentezza

CAMPI BISENZIO – Domani, 18 maggio, si riparte con una costante attenzione e con l’utilizzazione di mascherine e guanti e comportamenti acquisiti nel corso di questi due mesi di “tempo sospeso” come la distanza sociale. Stare a casa in questo periodo per molti ha significato rivedere la propria vita lavorativa oltre che sociale, riorganizzare la […]

CAMPI BISENZIO – Domani, 18 maggio, si riparte con una costante attenzione e con l’utilizzazione di mascherine e guanti e comportamenti acquisiti nel corso di questi due mesi di “tempo sospeso” come la distanza sociale. Stare a casa in questo periodo per molti ha significato rivedere la propria vita lavorativa oltre che sociale, riorganizzare la propria attività. Rosanna Martino è una logopedista che collabora con il Centro MeMe di Campi Bisenzio e in questi giorni ha visto rivoluzionata la propria attività e ha riscoperto “la lentezza”.

Stare a casa  in questa emergenza sanitaria cosa significa per lei?

La realtà attuale sta stravolgendo le mie abitudini, come quelle di tutti. Da una parte ci sono le limitazioni e i vincoli a cui bisogna attenersi: la distanza sociale, il non poter uscire, non sentirmi libera di respirare a pieni polmoni perché devo camminare indossando una mascherina. Dall’altra, però, ci sono le occasioni che la vita prima del Covid-19 mi toglieva. La frenesia, il dover stare tante ore fuori casa, dover gestire continuamente un’organizzazione complicata, tra famiglia e lavoro: la grave situazione attuale ha snellito di molto queste dinamiche. Mi sta concedendo una strana ‘lentezza’, il tempo di riscoprire la vita in casa, la possibilità di passare più tempo con mia figlia.  Non nascondo che non è semplice per una persona come me, abituata a lavorare fuori e a fare lunghi spostamenti, riadattare le intere giornate tra le mura domestiche. Poter stare a casa non corrisponde ad avere più tempo per la mia persona o per il back-office necessario nel mio lavoro. Spesso corrisponde al dovermi nascondere qualche ora in una stanza della casa, per sfuggire alle attenzioni di mia figlia. È difficile star dietro mentalmente a tutti questi aspetti rimanendo tra le stesse mura; a questo poi va aggiunta l’aggravante della situazione che stiamo vivendo, aumentando così il livello d’ansia e preoccupazione. Per aiutarmi ho dovuto scegliere tra questi fattori, quale “attutire” per sentirmi meglio; l’unica azione veramente fattibile è stata quella di non seguire in maniera accanita e puntuale gli aggiornamenti quotidiani sulla pandemia. Ho iniziato a ignorare per un po’ i “bollettini di guerra” delle 18: conoscere i tragici numeri dei decessi e degli infetti non poteva essermi d’aiuto; ogni giorno sperare in un numero meno grave rispetto al giorno prima, per poi rimanerne delusa.  Ho deciso che la consapevolezza della gravità della situazione mi bastava. È stato in questo modo che ho ricominciato a dormire meglio di notte, senza i continui risvegli o l’insonnia. Di giorno sono riuscita a concentrarmi di più sul lavoro nel poco tempo a disposizione.

Lei è una logopedista questa condizione di “vita sospesa” ha modificato il suo modo di lavorare e il rapporto con i suoi pazienti come è cambiato?

Prima che fosse annunciato il lockdown avevo intuito che qualcosa di importante e stravolgente stava per accadere; ciò nonostante nella prima settimana ho avuto bisogno di prendermi del tempo per riflettere e valutare la situazione; ho tenuto il lavoro in stand-by e ho deciso che mosse compiere. I provvedimenti del governo non bloccavano, in effetti, l’esercizio della mia professione in studio; tuttavia imponeva, giustamente, delle misure che rendono difficile un lavoro come il mio, oltre alla necessaria differenziazione tra trattamenti derogabili e inderogabili. Vicinanza, contatto fisico, espressioni del volto, empatia. Come potevo mantenere intatti questi aspetti; senza ignorare, poi, il rischio di contagiarmi e mettere a rischio la mia famiglia. In un secondo momento ho iniziato a indagare e approfondire le possibilità che poteva darmi la ‘teleriabilitazione’: quali strumenti avevo a disposizione, che tipo di assistenza e continuità potevo offrire? Conoscevo questo tipo di intervento a distanza ma personalmente non avevo mai avuto il bisogno di adottarlo. Ho capito, però, che il Covid-19 mi metteva difronte una nuova sfida professionale: dopo 10 anni di attività in libera professione ho dovuto ripensare al mio modo di lavorare, riprogrammare il tipo di intervento, le mie modalità di relazionarmi a bambini, genitori e pazienti in generale; era una nuova sfida, e andava affrontata! Sono partita da questo e il feed-back che ho ricevuto dall’utenza è stata estremamente positiva: non ero l’unica che in quel momento si stava riorganizzando. Anche le famiglie stavano sperimentando nuovi modelli di vita familiare e lavorativa; ma tutti avevamo una stessa priorità, come genitori e come professionisti: ricreare un minimo di sicurezza e di stabilità, per noi ma soprattutto per i nostri figli. Dare a loro un senso di “normalità” quotidiana, portare avanti ciò che era possibile, difronte a tutte le attività che hanno dovuto forzatamente e improvvisamente interrompere. Devo ammettere che è stata una bella sensazione riconoscere la parte più umana di ognuno di noi. Incontro settimanalmente i miei pazienti, adottando i più comuni software per videocall; assieme lavoriamo su materiale da me precostituito, o giochi didattici interattivi presenti su specifici siti. Ovviamente lavorare a distanza presenta degli svantaggi: il rischio di avere problemi di connessione, una maggiore distraibilità dei pazienti, soprattutto i più piccoli; richiede fasi più lunghe di preparazione delle attività da proporre. Però non sono da sottovalutare i vantaggi, come quello di una maggiore elasticità degli orari e la possibilità di proporre, in caso di necessità, un intervento intensivo. Inoltre rappresenta un canale importante per poter osservare i pazienti nel loro contesto quotidiano, dare suggerimenti alle
famiglie su come riadattarlo in base agli obiettivi riabilitativi individuati e rendere i genitori un tramite importante nel raggiungimento di questi obiettivi, che diventano obiettivi comuni.

Ci viene richiesto, per motivi sanitari, di avere un comportamento diverso nei confronti dei nostri simili: niente avvicinamento e niente scambi di affetto tra amici e conoscenti. Questo secondo lei condizionerà anche in un prossimo futuro i nostri rapporti con gli altri e in particolare modificherà il suo rapporto con i pazienti?

Nel mio lavoro l’ambito in cui spesso mi trovo ad essere più a contatto fisico è ovviamente quello pediatrico: un abbraccio o una carezza sono rassicurazioni importanti nel momento della difficoltà, come anche un bel rinforzo positivo difronte a una conquista; potrò farne a meno? In questo momento non saprei rispondere. L’empatia può essere espressa in vari modi e a vari livelli. Probabilmente riuscirò a riadattare certe modalità ma, a volte, un bambino va abbracciato, punto e basta. Per quanto riguarda gli adulti, in genere i contatti sono di per sé tecnici per cui richiedono in partenza l’uso dei DPI, come guanti e mascherina, come nel caso della riabilitazione logopedica dei disturbi della deglutizione (disfagia). Allo stato attuale è evidente che le precauzioni da adottare saranno maggiori: aggiungere, in determinati interventi, l’uso della visiera protettiva; sicuramente inizierò a essere più fiscale sullo stato di salute dei miei pazienti al momento dell’incontro: “ha avuto la febbre ieri ma oggi sta bene” non dovrebbe più accadere.

Stare a casa le ha permesso di riscoprire attività che credeva dimenticate o scoprirne di nuove?

Stare a casa mi ha permesso di riesercitare uno dei miei hobbies preferiti: creare oggetti nuovi dal riutilizzo di materiale che altrimenti finirebbe al macero. Ad esempio, ho regalato a mia figlia una libreria Montessoriana che ho costruito usando una scatola vuota di pannolini, ricoperta con carta regalo avanzata dallo scorso Natale. Lei non ha mostrato grande apprezzamento per l’oggetto in sé, ma io mi sono sentita molto soddisfatta del risultato!

Cosa le resterà di questa esperienza?

La prima risposta potrebbe essere di connotazione negativa: la paura per l’incertezza del futuro; temere di dover crescere i miei figli in una realtà fatta di mascherine e distanziamento sociale. Però la mia indole cerca di recuperare sempre un lato positivo. Quindi la risposta che voglio dare è che mi resterà il ricordo di un periodo difficile, che tutti abbiamo affrontato con grande senso civico e responsabilità. Un momento che ci ha permesso di riscoprire e ripensare il nostro modo di lavorare; e non parlo solo per il mio ambiente. Voglio pensare a tutti gli insegnanti che hanno dovuto reinventare sé stessi e la didattica; anche i meno portati all’uso del computer hanno dovuto fare questo grande passo, che sicuramente non dovrà essere perso. In molte realtà, ad esempio nel mio distretto sanitario, il divieto di fare file presso gli uffici, ha permesso di sbrigare la burocrazia rimanendo a casa, attraverso i contatti telefonici e per e-mail. Spero onestamente che una volta rientrata l’emergenza, questi effetti non vadano nel dimenticatoio. Mi resterà il tempo che ho potuto dedicare a mia figlia. Non poter vedere mia sorella che vive a Lucca, il viaggio annullato dalla Puglia dei miei genitori; la mia migliore amica è diventata mamma per la prima volta e non ho ancora  potuto conoscere questo dono; neanche lei ha potuto godere della vicinanza dei suoi familiari. Questo esperienza lascerà a me, come credo a tutti, la riscoperta del valore reale che le relazioni hanno nelle nostre vite.