Uscire di casa e la “sindrome della capanna”: come saremo dopo il lockdown

CAMPI BISENZIO -Da domani 18 maggio riprenderanno molte attività e si potrà uscire senza autorizzazione. Ci sono persone che nonostante abbiano voglia di tornare a qualcosa di simile a quello che prima del lockdown era “normalità” temono di uscire come fosse presente in loro una paura. Qualche semplice consiglio per affrontare la nuova vita? Lo […]

CAMPI BISENZIO -Da domani 18 maggio riprenderanno molte attività e si potrà uscire senza autorizzazione. Ci sono persone che nonostante abbiano voglia di tornare a qualcosa di simile a quello che prima del lockdown era “normalità” temono di uscire come fosse presente in loro una paura. Qualche semplice consiglio per affrontare la nuova vita? Lo abbiamo chiesto a Cipriana Mengozzi, psicologa e psicoterapeuta e fondatrice del Centro MeMe di Campi Bisenzio.

Cosa ci accadrà nella Fase 2, dopo lo Stare a casa?

“Proviamo brevemente a ricostruire ciò che ci è successo e come è stato possibile che sia accaduto. Pensavamo di poter ricominciare a uscire ogni volta che il Presidente Conte parlava, prima a marzo, poi ad aprile, poi a maggio, ma ogni volta che parlava, invece di darci rassicurazioni, arrivavano cattive notizie, si riduceva in noi la speranza e aumentavano la paura del virus e del contagio. Il tempo scorreva mentre ogni giorno sognavamo una cura, un vaccino, e pian piano venuto a creare una sorta di pensiero magico, che se all’inizio era confortante e consolatorio, alla fine per molti di noi è sfociato in ansia, preoccupazione per il lavoro e per i nostri cari, in un sistema sociale dove le persone non si sono sentite più al sicuro come prima. Quella lieta notizia tanto attesa di “liberazione” non arrivava mai (ha saltato anche il 25 aprile!), almeno fino a ieri sera: “lunedì 18 maggio si riparte”!

In alcuni l’ansia è cresciuta talmente tanto nel tempo, che adesso hanno paura che sia troppo presto per riaprire e si lanciano in commenti accesi contro questa “fretta” di tornare alla “normalità” (nonostante mascherine, gel ovunque, impossibilità di toccarsi, ma non apriamo questa parentesi, che richiederebbe un’intervista intera!). Altri invece avevano iniziato ad apprezzare il rallentamento dei ritmi, lo stare più a casa, il vivere le relazioni coi cari e le cose della natura in un modo profondamente diverso da prima e si sono “rintanati volentieri” dentro loro stessi e nelle loro abitazioni. In termini scientifici, in alcuni si è strutturata la cosiddetta “sindrome della capanna” o “sindrome del prigioniero”: lentamente lo stare a casa ha iniziato a piacerci, tanto da aver cambiato radicalmente le nostre prospettive di vita futura. Adnkronos riporta che, secondo la Società italiana di psichiatria (Sip), sarebbero oltre un milione gli italiani colpiti da questa sindrome.

Vorrei subito tranquillizzare i lettori: non si tratta di una vera e propria malattia, è più una difficoltà, una lentezza nell’adattamento alle situazioni, che appartiene di solito alle persone che hanno vissuto abbastanza bene il confinamento, tanto che adesso non hanno più voglia di uscire di casa. Li spaventa tornare alle vecchie routine e ai vecchi ritmi, il solo pensiero le annoia e le disturba, e fa nascere in loro una reale condizione di disagio. Alcuni pazienti, ad esempio, mi stanno dicendo che oramai si sono abituati e per adesso manterranno la videoterapia, e stentano a tornare a studio in presenza, dichiarando che a casa stanno proprio bene e che prima non l’avrebbero mai pensato. Il tempo normale di adattamento delle persone a nuove abitudini, è intorno ai 21 giorni, quindi abbiamo avuto tutto il tempo di “cambiare vita” e adesso qualcuno, a questa nuova vita, ci si è proprio affezionato! In fondo ci succede un po’ tutti gli anni, quando rientriamo al lavoro o allo studio dopo le ferie estive: in pratica, “perdiamo il ritmo”! In genere, la sindrome si risolve da sola, nell’arco di 2 o 3 settimane.

Tornando allo specifico della pandemia, il forte impatto emotivo, in pratica, ha causato due reazioni interiori opposte, anche se l’esito comportamentale è lo stesso (restare in casa e non voler più uscire come prima): da un lato, chi resta chiuso per paura del virus e del contagio, dall’altro chi invece oramai si è adattato, e anche se non ha una particolare paura del contagio o di contagiare gli altri, sente una gran fatica al solo pensiero di affrontare come prima il mondo esterno, le persone, il lavoro e tutti quegli aspetti messi forzatamente in stand-by dal lockdown.

Leggevo proprio stamattina (17 aprile) su L’Espresso, un articolo che riporta i risultati della rilevazione realizzata dall’Osservatorio “Lockdown. Come e perché sta cambiando le nostre vite”, realizzato da Nomisma in collaborazione con CRIF. Hanno indagato le speranze e le preoccupazioni degli italiani in merito alla ripartenza. Riporto dall’articolo: “Nella speranza di avere presto il vaccino (…) gli intervistati rivelano il 21% non è uscito mai di casa nelle ultime due settimane, vivendo in un isolamento completo, mentre chi ha lasciato la propria abitazione almeno 1 volta negli ultimi 15 giorni, lo ha fatto per svolgere attività “quotidiane o di necessità” (…) Ma uscire, non è sempre una gioia perché gli italiani non si sentono al sicuro e la preoccupazione di contrarre il virus (25%) è viva e alcuni, forse perché asfissiati dalle mascherine, provano addirittura ansia.” Ho trovato che il 25% non sia un dato altissimo. Parliamo di un italiano su 4. E tutti gli altri? Non avrebbero più nessuna paura? Forse è reaslistico pensare che le persone si dividono tra la paura generata dal rischio di ammalarsi o di contagiare i propri cari e la paura di non ritrovare fuori il mondo che conoscevamo prima, e il crogiolarsi nella lentezza e nel benessere della propria alcova casalinga.

Passando ai consigli che posso dare, credo che ognuno debba guardare per prima cosa dentro di sé e capire, se ha paura, quale sia il reale oggetto di questa sua paura. Spesso la stampa e la tv hanno ripetuto come un mantra “nessuno ne uscirà da solo!”, e in termini sociali è molto vero, ma in termini psicologici non è proprio così. Le reazioni dipenderanno dalla capacità dell’individuo di far fronte in maniera positiva all’emergenza, da quella capacità di resilienza che ciascuno di noi tira fuori solo nel momento in cui le avversità si presentano. Gli individui hanno caratteristiche di personalità e storie diverse, famiglie e relazioni specifiche, e questa pausa prolungata è capitata in specifici momenti della vita di ciascuno di noi, ha interrotto matrimoni, negato funerali, spaventato e fatto emergere istinti di protezione, da un lato (figli, anziani, persone fragili) e di rabbia dall’altro (l’untore era –  a turno – chi portava a passeggio il cane, poi chi correva, o chi faceva troppo spesso la spesa).

Anche chi non aveva mai sofferto prima di insicurezza e ansia, adesso potrebbe avere bisogno di una ripresa più graduale rispetto ai ritmi a cui era abituato, rispettando i propri tempi. L’importante è procedere a piccoli passi, iniziare dal rivedere le persone più vicine e fidate, riprendere le attività che ci danno maggior sicurezza. Sul luogo di lavoro, in famiglia, nella cerchia di amici, ci si può sostenere e comprendere l’un l’altro, per tornare a raccordare all’unisono gli incastri quotidiani, le difficoltà da superare e le gioie di cui godere insieme, nell’attesa di tornare al libero abbraccio, ma forse più consapevoli di chi siamo e di quali siano i nostri reali desideri e bisogni, messi in luce dalla “moviola Covid”. Mi auguro, però, che in tutto questo saremo sostenuti dalle istituzioni e dal sistema salute, mi auguro che le tante iniziative di psicologia nate ai tempi del Covid non cessino di esistere, e che il Governo preveda un sostegno e un accompagnamento anche psicologico all’interno delle strutture sanitarie pubbliche e private, pensando soprattutto alle persone più fragili e a tutte quelle situazioni che, nate durante o aggravate dalla pandemia, “andranno sicuramente oltre il virus”.