“Mosè”, anche la Piana ha il suo “profeta” fra i reparti speciali dell’esercito

PIANA FIORENTINA – Pesare le parole, anche se è andato “in pensione” da poco, fa sempre parte del suo lavoro. Pesare le parole e guardarsi intorno. Perché è capitato in più di un’occasione – e potrà succedere ancora – che questo modo di agire, ovviamente unito a tante altre “doti”, abbia contribuito a salvargli la […]

PIANA FIORENTINA – Pesare le parole, anche se è andato “in pensione” da poco, fa sempre parte del suo lavoro. Pesare le parole e guardarsi intorno. Perché è capitato in più di un’occasione – e potrà succedere ancora – che questo modo di agire, ovviamente unito a tante altre “doti”, abbia contribuito a salvargli la vita. E nonostante il confine fra dire e non dire faccia parte del suo modo di rapportarsi di fronte a chi vuole raccontare la storia della sua vita, in quasi un’ora e mezzo di colloquio “Mosè” almeno una parte ce l’ha raccontata davvero. “Mosè” è il suo nome in codice, vive nella Piana e per più di venti anni è stato un soldato dei reparti speciali dell’esercito. Un soldato, non un militare, perché è proprio su questa “distinzione” che si basa tutta la sua carriera. “Mosè” adesso ha quasi 57 anni, sta continuando a lavorare privatamente ma la vita – e l’abbigliamento – da soldato ce li ha attaccati addosso come una seconda pelle.  Così come il carattere, che in una professione del genere è innato.

Originario di Messina, la sua è una famiglia di militari, in particolare è stato lo zio, paracadutista anche lui, ad “affascinarlo”: “A 5 anni avevo già deciso che sarei stato un paracadutista anche io”. Diplomato come ragioniere, a codici e calcolatrici ha preferito ben altro e dopo essersi arruolato come volontario nel 1980 presso la Scuola Allievi Sottoufficiali di Viterbo, due anni dopo la sua “casa ” è diventata la caserma della Folgore a Livorno: “Si tratta della punta di diamante dell’esercito italiano, anche a livello di addestramento, sia fisico che culturale”. E che “Mosè” fosse un “predestinato” lo testimonia anche la sua partenza, a cavallo fra il 1982 e il 1983, per la prima missione in Libano.

Difficile raccontare tutto in così poco spazio, quel che è certo è che, dieci anni dopo,  la partenza per la missione “Ibis” in Somalia gli ha cambiato definitivamente la vita. A Mogadiscio era una delle guardie del corpo del contingente italiano, ha avuto a che fare anche con i giornalisti, fra cui Ilaria Alpi e Carmen La Sorella, che erano lì per svolgere il loro lavoro di cronisti. Ma soprattutto ha acquisito la fiducia del generale del corpo d’armata, generale di cui è stato guardia del corpo e che lo ha portato a costanti spostamenti tra Firenze, Roma, Livorno, l’Albania e di nuovo Firenze. E poi i Balcani. Missioni dove il rischio è chiaramente all’ordine del giorno e alla base delle quali c’è tantissima pianificazione. Con un’unica incognita: “Si sa quando è l’inizio ma non la fine…”.

Missioni, tante all’estero, dove gioco forza si entra anche in contatto con la popolazione del luogo: “A Mogadiscio detti 1.200 dollari di tasca mia a due donne perché facessero ricostruire il tetto della loro casa”. Una di queste, poi, Jamila il suo nome, venne salvata da “Mosè” da un tentativo di stupro da parte di poliziotti somali: “Ricordo ancora le sue dita “conficcate” nella mia divisa quando, abbracciandomi, si rese conto che non era più in pericolo…”. Anno dopo anno la sua carriera è cresciuta di pari passo con l’esperienza acquisita: dall’artiglieria paracadutisti è passato al Reggimento acquisizione obiettivi del Comando Forze Speciali dell’Esercito dove ha svolto fino al termine della carriera l’incarico di vice-comandante della compagnia corsi. Nel 2005, conseguita la “qualifica” di Specialista per Operazioni Speciali. è partito per l’Afghanistan.

Missioni, partenze ricorrenti che lo hanno portato a restare per lunghi periodi da casa e dagli affetti familiari: “La cosa più difficile era tornare a casa magari dopo essere stati coinvolti in un conflitto a fuoco e fare il marito o il babbo “normale”, senza far trasparire niente di quello che avevo vissuto”. Normalità difficile da far “respirare” anche quando era lontano migliaia di chilometri: “Quando ero a Beirut non c’erano i cellulari e chiamavo i miei genitori in Italia una volta ogni due settimane per due minuti”. Questo è “Mosè”, “Abramo” e “Lazzaro” alcuni dei soldati che hanno partecipato a a una delle missioni insieme a lui. Mosè, proprio come il profeta e legislatore del popolo ebraico, che libera il suo popolo in Egitto dove era tenuto in schiavitù e lo guida attraverso il deserto in un viaggio durato quarant’anni nel corso dei quali compie diversi miracoli e riceve la Legge di Dio sul monte Sinai.

“Mosè” che fino al 1996 è stato anche pilota di motocross, legge Camilleri ed è simpatizzante dell’Inter. “Mosè” che ovviamente ci piacerebbe incontrare di nuovo, non fra quarant’anni però.

(Nelle foto “Mosè” in due diversi momenti della sua carriera)